Siamo arrivati alla terza parte del nostro iter culturale che sto costruendo con voi per rendere il più chiaramente possibile come sia facile collegare tanti aspetti diversi delle varie scienze, arti e materie umanistiche su di un solo filo d’oro che è perennemente teso sopra la nostra testa ma che tocca a noi tesserlo con il fuso della conoscenza. Vi lascio in parentesi i due links precedenti i quali vi riporteranno alla prima e alla seconda parte di questo percorso, nel caso fosse la prima volta che capitate sopra questo blog ed in particolare su questo articoletto. [Link Parte I e Parte II].
Allora, che squillino le trombe, rullino i tamburi e riprendiamo la nostra marcia verso inesplorate selve della sapienza.
Dunque, lasciandoci alle spalle momentaneamente Beethoven, Hegel e Adorno dei quali abbiamo già parlato un pochino, tentiamo invece di rispondere alla questione posta quasi di sfuggita nel precedente articolo, ovvero:
“E se quel ‘tutto’, quel mondo che Hegel e Beethoven interpretano a modo proprio con una visuale per lo più dialettica, venisse al contempo analizzato da alcuni loro contemporanei, non solo musicisti, compositori o filosofi, bensì anche poeti?”
Siamo tutti d’accordo sul fatto che il periodo di cui stiamo parlando è il 1800, ovvero l’epoca che viene ricordata principalmente per la corrente “romantica” che la caratterizzò. Ma non cadete nel tranello che questo termine può suscitare! ‘Romanticismo’ non è, in questo caso, quel che noi tutti intendiamo oggigiorno, anzi! Questo movimento culturale, affermatosi appunto in Europa nel XIX secolo, era particolareggiato dalla strenua opposizione che creò contro l’Illuminismo, suo cugino settecentesco. Questa novità propugnò un’insolita visione del mondo che rinfrescò l’aria culturale precedente ormai rarefatta dai classicisti. Nacque o meglio, si risvegliò nell’anima degli intellettuali un tipo di sensibilità basata su una ripresa delle tradizioni e della storia, sull’individualismo animato dalla fantasia e dal sentimento.
Parlando ora infatti di poeti, e non più di sola musica o filosofia, tuffiamoci nel pieno Ottocento e vediamo come il modo di interpretare il mondo era cambiato.
Partiamo dall’opera più nota di G. G. Byron Childe Harold’s Pilgrimage (1812-‘18) nella quale è ben visibile ed accentuata la figura del celebre ‘Byronic Hero’, ovvero quella nuova figura, che in un certo senso è quasi un alter ego dello stesso poeta, la quale sintetizza la nuova idea di uomo che gli artisti romantici prediligevano; difatti egli doveva essere caratterizzato da passione sfrenata, inquietudine e mistero che si rispecchiavano in una figura di uomo che rimaneva affascinato e ipnotizzato dalle forze naturali e sconosciute che dettavano le leggi del mondo. Come si evince già dal carattere di questo personaggio, la conseguenza è il fatto che non vengono più seguite le regole morali convenzionali e questo lo porta ad essere isolato e quasi odiato dagli altri uomini perché eccessivamente attraente ed amato dalle donne.
Ugualmente P. B. Shelley, lavorando negli stessi anni di Byron, rese ancora più personale la propria visione del mondo in quanto lavorò su due basi fondamentali, libertà e amore, che adottò come ‘rimedi’ per gli sbagli e gli orrori della società a lui contemporanea. Egli focalizzò la sua attenzione, come scrisse nell’”Ode to the West Wind”, sull’importanza dell’indipendenza morale ed intellettuale di ogni uomo, criticando aspramente le convenzioni e le catene che da troppo tempo ormai affliggevano gli intellettuali. Nelle ultime strofe della poesia dice:
« Be through my lips to unawaken’d earth, the trumpet of a prophecy! O Wind, if Winter comes, can Spring be far behind? »
{« E alla terra che dorme, attraverso il mio labbro, tu sia la tromba d’una profezia! Oh, Vento, se viene l’Inverno, potrà la Primavera essere lontana? »}
In questa poesia l’autore auspica che l’umanità possa rigenerarsi come la natura sotto l’effetto del vento, e che il poeta possa avere nella società un ruolo di eminente attivismo. Con queste ultime parole, egli non potendo compiere le sue ideali metamorfosi, invoca il Fato così da poter diventare un albero, cosicché possa essere il Vento stesso ad entrare nel suo corpo e ad uscirne, come in qualsiasi pianta terrestre. Solo così Shelley potrebbe trovarsi in completo stato di grazia, attraversato in ogni momento dal vento e dai suoi mille spifferi. Ma il poeta non intende fermarsi qui, infatti il suo messaggio di pace e libertà dev’essere divulgato. Così egli, ancora umano nel suo nuovo essere, mediante le foglie staccate e sparse dal vento, può consegnare a ciascuno i suoi versi profetici, scritti nei petali e nelle foglie stesse del suo “ego”. Visione tipicamente romantica che rispecchia anche l’ideale beethoveniano di libertà d’espressione in campo musicale e soprattutto il fatto che il compositore, come gli altri poeti, reputi le arti (in generale) non solo mezzo per esternare i propri sentimenti e le proprie idee ma anche per divulgare al mondo l’importanza che esse hanno per modificare positivamente e migliorare la società.
Infine, della schiera dei poeti della seconda generazione del romanticismo inglese, abbiamo J. Keats che, oltre a riprendere temi già trattati dai suoi predecessori o contemporanei, affronta la realtà in sé per sé attraverso una speculazione decisamente basata sull’immaginazione; prende in considerazione, in ogni lavoro che scrive, l’importanza della vita e dell’arte le quali fuse insieme, regalano emozioni inspiegabili che solo un vero artista può comprendere. Come in quasi tutti i personaggi romantici, l’immaginazione ha un ruolo fondamentale dal momento che può essere identificata anch’essa come mezzo di speculazione e comprensione dell’universo. Come può un uomo attingere e sfiorare con il pensiero le massime che il cosmo ci propone in forme concrete? Come si può veramente tangere il significato ultimo dei misteri che caratterizzano la nostra vita? Keats, a differenza di Byron e Shelley che non furono tormentati troppo da queste domande, tentò in maniera filosofica, come Romanticismo voleva, di creare un metodo specifico per capire il ‘tutto’; egli la definì Negative Capability, ovvero quella cosa che coincide con lo sforzo costante di rimanere aperti, permeabili a ciò che ci viene dall’esterno. Si identifica fondamentalmente con una modalità non difensiva e con la volontà di rendersi vulnerabili.
Keats parlava della necessità di rendersi passivi e ricettivi. Per questo affermava che il poeta deve rendersi vulnerabile per essere sempre aperto a sensazioni e percezioni, deve cercare di rendere umile l’io per evitare di incollare alla realtà significati che vengono principalmente da una volontà razionale di interpretarla; il poeta deve quindi diventare un camaleonte, in grado cioè di cogliere dall’interno ciò che percepisce della realtà; rimanere aperti per accogliere la vita senza aver preteso di averlo deciso prima, una sorta di abbandono consapevole attraverso cui si accede alla conoscenza che deriva dall’esperienza. Lui stesso riprende il tema del viaggio, sia fisico che mentale (quest’ultimo conoscibile solo attraverso fasi di isolamento e reclusione dalla società, come d’altronde fece Beethoven a causa della sordità imminente che lo rese tanto vulnerabile quanto inavvicinabile per un lungo periodo della sua vita). La vita deve essere considerata come un viaggio verso l’incerto, qualcosa che assolutamente non si conosce e ci sorprende ogni volta. Ogni esperienza relativa alla vita è però profondamente personale, faticosamente guadagnata attraverso connessioni dolorose, intime e diversissime per ognuno; ed è per questo motivo che il dialogare sull’esperienza deve avere le caratteristiche della delicatezza e della discrezione, deve essere espresso con una parola che semplicemente allude e mai afferma o descrive, affinché, in questo modo, ognuno abbia la possibilità di aggiungere una tessitura alla fine tela della sua anima.
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